Navarana e il gigante (fiaba eschimese)


In Groenlandia, un paese lontano dove regnano la neve ed il gelo, viveva un tempo una tribù di eschimesi.
La più bella ragazza della tribù si chiamava Navarana; aveva lunghi capelli neri, lisci lisci, occhi a mandorla e denti candidi che scopriva sempre in un gran sorriso.
Quando fu in età di sposarsi, la fanciulla prese come marito un cacciatore della sua tribù. Col tempo, però, la scelta si rivelò poco felice.
Non che il cacciatore fosse proprio cattivo, ma andava soggetto a frequenti attacchi di collera durante i quali non esitava ad afferrare un bastone e inseguire la moglie per tutto il villaggio, minacciando di picchiarla.
Le ragioni di questi scoppi d’ira erano le più strane e svariate, e spesso la poveretta non aveva nessuna colpa.
Per sua fortuna, Navarana era velocissima nella corsa, e non era mai accaduto che il bastone del marito riuscisse a raggiungerla.
La situazione, comunque, restava ugualmente spiacevole.
La gente del villaggio considerava il marito di Navarana un rissoso e un violento e compiangeva la povera donna che lo aveva sposato, ignorando che neppure una bastonata era andata a segno.
L’ira del cacciatore si esauriva durante i lunghissimi inseguimenti attraverso le strade del villaggio; quando la moglie veniva raggiunta, i due finivano per far pace e riprendevano a vivere sotto lo stesso tetto fino al prossimo, inevitabile litigio, minacce col bastone e relativo inseguimento.
Le cose andarono avanti così per qualche anno, poi Navarana si stufò. Forse temeva che, un giorno o l’altro, suo marito sarebbe riuscito a raggiungerla e a bastonarla di santa ragione, forse le dava fastidio di venire compatita dagli abitanti del villaggio come una povera moglie infelice. Fatto sta che, in una buia notte d’inverno, la bella eschimese fuggì di casa.
Attraversò silenziosa e cauta il villaggio e si diresse verso la tundra coperta di neve; i bianchi fiocchi che quella notte cadevano in abbondanza cancellarono ben presto le sue tracce.
Avvolta in una pelliccia d’orso, col cappuccio calato fino alle orecchie, Navarana continuò a camminare tutto il giorno in quella gelida, immensa pianura spazzata dal vento, dove mancava qualsiasi traccia di vita.
Verso il tramonto la temperatura si abbassò ancora.
Navarana mangiò le ultime provviste che aveva portato da casa e si dissetò con una manciata di neve.
Intorno a lei tutto era bianco, piatto e liscio come una tavola.
- Devo trovare un rifugio per la notte o morirò congelata - mormorò tra sé la donna.
E, nonostante il freddo e la stanchezza, si mise di nuovo in marcia.
Finalmente, nella luce violacea della sera, vide profilarsi all’orizzonte una catena montuosa.
“Forse tra quelle montagne potrò trovare una grotta dove dormire al riparo” pensò Navarana, ormai al limite delle forze.
Un po’ correndo, un po’ arrancando riuscì a percorrere il tratto di strada che la divideva dai monti.
Erano montagne strane, di un tipo mai visto: cinque alture che parevano tendersi verso di lei come le dita di una mano enorme.
Navarana si addentò in una stretta valle chiusa da ripide pareti gelate, trovò un angolino dove stendere le membra intorpidite e si addormentò di un sonno di piombo.
La mattina seguente, ben riposata, decise di esplorare con cura le alture.
Prese ad arrampicarsi lungo una ripida china e, dopo lungo faticare, si trovò su una piattaforma coperta di radi cespugli scuri.
Ora più che mai le sembrava di trovarsi sopra una mano gigantesca, aperta sul terreno con il palmo girato verso il basso e le cinque dita allargate.
Percorse la piattaforma e cominciò a dare la scalata a un lungo tratto in salita.
Si fermò solo quando il buio le impedì di continuare; cercò un cespuglio più folto degli altri, scavò lì sotto una buca nella neve e riuscì a riposare abbastanza bene fino al sorgere dell’alba.
Al risveglio volle andare ancora avanti, con la speranza di trovare un luogo più ospitale dove fermarsi definitivamente e vivere in pace.
La salita continuava, e diventava sempre più ripida. A un certo punto, verso la linea dell’orizzonte, Navarana vide qualcosa che assomigliava a un fitto bosco. Tutto intorno, a perdita d’occhio, c’era solo neve intatta.
Navarana era perplessa. Non aveva mai sentito parlare né di montagne né di boschi, da quelle parti. Forse lei per prima ci aveva messo piede! E ora doveva andare avanti, alla ricerca di qualcosa da mangiare, altrimenti prima di sera sarebbe crollata, morente di fame.
- Dove c’è vegetazione c’è selvaggina - disse a se stessa. - Devo raggiungere quel bosco laggiù.
Lo aveva quasi raggiunto e fissava incuriosita quella distesa nera ed impenetrabile, quando una voce profonda come il tuono la investì, simile ad una folata di vento tempestoso, e quasi le fece perdere l’equilibrio.
- Chi sei? Che cosa ti ha spinto quassù dove mai nessun essere umano era mai giunto prima d’ora?
Tremando di paura, Navarana rispose con umiltà:
- Grande Spirito, perdonami se ho invaso i tuoi domini, non intendevo offenderti. Mi chiamo Navarana e sono fuggita dal villaggio per evitare i maltrattamenti e le bastonature di mio marito.
- Io non sono uno spirito - ribatté la voce, facendo alzare intorno a Navarana turbini di neve. - Sono un gigante e mi chiamo Kinak. Solo in questa immensa pianura sono riuscito a trovare spazio sufficiente per potermi distendere senza rischiare di schiacciare interi villaggi. Tu hai camminato per due giorni sul mio braccio, dopo essere salita sulle dita della mia mano.
Oh, mi dispiace! Ti ho forse fatto male? - chiese Navarana, con la sua voce più dolce.
Una specie di terremoto squassò il paesaggio tutto intorno, fiocchi di neve volteggiarono nell’aria come impazziti. Per non cadere, Navarana fu costretta ad aggrapparsi ad un cespuglio e intanto si chiedeva quale terribile catastrofe stesse per travolgerla.
Poi capì: il gigante aveva riso, a la sua risata aveva provocato quella specie di terremoto.
Ed ecco di nuovo la voce tonante di Kinak:
- Tu, farmi male! Ma se mi sono accorto della tua presenza solo quando ti ho visto qui, accanto alla mia spalla. Neppure il solletico mi hai fatto! Ascolta, Navarana: se vuoi, puoi restare qui con me. Basterà che non ti accampi vicino alla bocca, perché il mio respiro potrebbe spazzarti via un miglio lontano. Cerca un posticino ben riparato e sistemati meglio che puoi.
Navarana non se lo fece ripetere due volte. Cominciò a farsi strada tra i cespugli che altro non erano se non i peli del gigante, e, dopo lunghe esplorazioni, trovò un angolino che andava a meraviglia, caldo e tranquillo, proprio accanto alla narice sinistra di Kinak.
- Come va? - le chiese dopo un poco il gigante.
- Benissimo.
. Hai compiuto un lungo viaggio per giungere fin qua. Dimmi, hai fame?
- Eccome, gigante mio!
- Bene, ti procurerò qualcosa da mangiare.
Un momento più tardi Navarana vide qualcosa che assomigliava a una immensa nube nera scendere dal cielo.
Era le mano del gigante. Quella mano lasciò cadere vicino a lei una renna appena uccisa.
A Navarana la carne cruda non piaceva, perciò, dopo aver spellato la bestia, strappò qualche pelo dal viso del gigante e ne face un mucchietto a cui dette fuoco con l’acciarino che portava sempre con sé. Poco dopo un prosciutto di renna cuoceva sulle braci spandendo tutto intorno un delizioso profumo.
Cominciò così che Navarana il periodo più strano e affascinante della sua vita.
Kinak pensava a tutto; bastava che stendesse una delle sue enormi mani per catturare daini, volpi e molti altri animali.
Navarana utilizzava la carne per nutrirsi e metteva da parte le pellicce.
Con i peli più lunghi della barba del suo amico, strettamente intrecciati, aveva costruito una comoda capanna, tappeti e ceste.
Delle soffici pelli di renna le servivano da coperta e da stuoia. Insomma, si era sistemata davvero bene.
Le altre pelli più belle, quelle delle volpi bianche e degli orsi polari, raccolte con cura, dopo qualche tempo erano così tante da fare di Navarana una donna ricchissima.
I mesi scorrevano tranquilli, la donna era felice. Finché un giorno il vocione di Kinak, più forte del solito, ruppe la quiete.
- Navarana, devi dirmi una cosa. E sii sincera, ti prego.
- Ma certo, Kinak.
- Non provi mai il desiderio di tornare a casa tua?
Navarana rifletté per un momento.
- A pensarci bene, amico mio, si, qualche volta ho nostalgia della mia capanna e del villaggio. E, siccome mi hai chiesto di essere sincera, ti svelerò una cosa: il giorno in cui ti ho conosciuto ho affermato che mio marito mi batteva con il bastone. Non era proprio la verità. Ci ha provato tante volte, rincorrendomi per le strade del villaggio, ma non è mai riuscito a prendermi, di conseguenza non mi ha mai bastonata. L’ho affermato per suscitare la tua compassione.
Dalla gola di Kinak uscì un brontolio sordo che sembrava il rumore di una valanga.
- E allora, se non sei mai stata bastonata, perché sei fuggita?
- Non saprei. Forse proprio perché era stanca di scappare via ogni volta che mio marito era di cattivo umore, o perché mi infastidiva che le altre donne del villaggio mi compiangessero di continuo. Ecco, Kinak, direi che mi esasperava più quel fiume di compassione che non le ire del mio sposo. Capisci?
- Capisco - sbuffò il gigante. - E mi sembra di capire che saresti anche disposta a tornare da lui.
- Eh, si. Ma temo che, non appena mi vedrà arrivare, impugnerà il bastone e mi picchierà sul serio. E nessuno alzerà un dito per proteggere una moglie che è fuggita di casa.
- Questo non è vero: ci sarò io a proteggerti - affermò il gigante.
- Insomma, Kinak, - piagnucolò Navarana - tu vuoi cacciarmi.
- Oh, no! Ma vedi, Navarana, mi sono stancato di stare sempre in questa posizione, supino. E d’altra parte, se solo osassi muovermi un poco, ti schiaccerei.
- E allora?
- Ascoltami e obbedisci: prendi tutte le pellicce più belle che hai ammucchiato nella capanna, fanne un gran rotolo e legalo con un pelo della mia barba.
- Lo farò.
- Indossa la giacca più pesante che hai, calati bene il cappuccio fino agli occhi e avvicinati alla mia bocca. Qualsiasi cosa accada in seguito, non aver paura. Tutto ciò che faccio è per il tuo bene, te lo assicuro.
Navarana corse alla capanna, fece un rotolo stretto delle pelli più belle, lo legò con un pelo della barba del gigante, infine andò ad inginocchiarsi vicino alle sua labbra.
- Sono pronta, Kinak.
Non aveva finito di pronunciare queste parole che si alzò una spaventosa tempesta di vento e di neve. Navarana, afferrata in quelle gelide spire, col fiato mozzo, il viso battuto da mille aghi gelidi, svenne.
Quando riapri gli occhi si trovò adagiata in una strada laterale del suo villaggio.
Allora corse al magazzino e vi nascose le pelli, poi andò a bussare alla porta di casa sua.
Venne ad aprire il marito, meravigliatissimo.
- Tu, Navarana? Ti credevo morta...
- Invece sono viva e vorrei tornare a vivere con te come un tempo.
- Si può sapere dove sei stata?
- A caccia.
- A caccia tu, una donna debole e paurosa? Tu, che scappavi a gambe legate quando ti inseguivo col bastone?
- Vai nel magazzino e vedrai se non ho detto la verità - ribatté Navarana.
L’uomo non se lo fece dire due volte, e spalancò tanto d’occhi davanti a quel mucchio di splendide pellicce. Ma non era ancora del tutto convinto.
- Voglio vedere se veramente non hai paura delle mie busse.
E impugnò minacciosamente il bastone. Navarana uscì in strada di corsa, gridando:
- Aiuto, Kinak, aiuto!
Una tremenda raffica di vento lanciò l’uomo a una decina di metri di distanza, ammaccandogli le ossa.
- Moglie mia, chi hai invocato? - chiese il marito stupefatto, mentre si rialzava a stento.
- Uno spirito potente - disse Navarana. - Lo stesso che mi ha aiutato a cacciare gli animali le cui pellicce sono nel magazzino, e che accorrerà in mio aiuto ogni volta che lo chiamerò.
Da quel giorno il bastone rimase inoperoso, e i due sposi vissero in armonia.

 
 

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Data di pubblicazione 22/02/2000
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