Raccolta di racconti di:

Matteo Gubellini



Indice della raccolta:


Kafkanità. Bianca. Olga.
Elisetta. Osservando, poi. Un monologo.
Scomode fascinazioni. Lo studiolo. Erminia.
Segreti. 

 
 
 


Kafkanità.

Che mi diano pure del megalomane, io a scuola ci voglio andare col mio mammut!
Lo tengo in camera il mio mammut, libero di curiosare fra le scartoffie e rotolarsi di qua e di là, e quando giunge l'ora della nanna si accuccia ai piedi del letto, mi fa bonne nuit colla proboscide e finge di assopirsi. In verità tiene un occhio guardingo che seminasconde dietro l'orecchione, e mi scruta...Aspetta pazientemente che m'addormenti per poi sgusciare da sotto la coperta e andare a vuotare il frigo, la canaglia, poi torna su, fa qualche ruttino, spalanca la finestra e s'invola verso la luna...
Questo lo so perché anch'io tengo un occhio ben desto, che nascondo trai tentacoli.



Bianca.

Mi giungono le voci che Bianca perde la memoria lentamente, il suo cervello comincia a far le bizze. Vacilla. A volte penso che ciò le sia provvidenziale, salvifico. Insomma, l'arteriosclerosi, vaccino a rimorsi e tempi andati, agognato soccorso nella disfatta...conseguita serenità.

Bianca è stata la mia maestra elementare, allora una donna già matura, lineamenti marcati occhi aspri chioma rasa e nasone, e sempre vermiglia in faccia.
Le sue gambone si tuffavano in mocassini scuri dai tacchi quadrati, tacchi tozzi che facevano TOC TOC quando passava intorno ai banchi. Dalla casta gonna erompevano quei due tronchi di carne che s'inchiodavano al suolo, TOC TOC, e scagliavano noi bambini nello sconforto più nero.
Bianca era un autentico flagello, perché bisogna dirlo, una di quelle maestre che in nome della disciplina non esitano a menar le mani, e che mani! Mani grandi e vittoriane che si alzavano in volo per piombare in picchiata sui nostri pavidi musi...SCIAFF! L'ordine veniva ristabilito, e che diamine!
Queste azioni punitive erano spesso vere e proprie esecuzioni programmate. Inderogabili! Una volta in un tema, commettemmo tanti di quegli errori grammaticali che Bianca inverdì: decise di farcela pagare. L'onta andava tolta! Il castigo da noi deliberato - perché bisogna ammetterlo, quelli ce li faceva scegliere -, fu la classica e inflazionata strigliata d'orecchie, dolorosissimo ma necessario. Lobo destro e lobo sinistro per tutti, democrazia! Ci schierò davanti alla cattedra in fila indiana. Io ero l'ultimo. A poco a poco inverdimmo anche noi, per la strizza però. Qualcuno cominciò a frignare, a protestare senza fortuna...STROC, si udivano i primi strappi, i lamenti...STRAC! Fu come un mattatoio, e tutti si grugniva dal terrore, non c'era scampo. Bianca ci voleva scotennare, la nostra fine era prossima. Lo sterminio dei somari...Era giunto " finalmente " il mio momento, gli occhi del tiranno risplendevano di sadismo, giustizia era quasi fatta...una bella gatta da pelare io però, un osso duro: mani sulle orecchie e gambe in spalla, il dissidente, a schizzare come un bagherozzo intorno ai banchi, e alle calcagna quell'arpia col sangue acido, tanto ti piglio ti spacco non mi fuggi! La vedremo cara la mia maestrina...Alla fine ovviamente m'ha pigliato, cioè, ha assoldato i compagni già puniti perché mi stringessero nell'angolino...jene!!!
Fu una giornataccia quella, ma Bianca assolse al suo dovere ed ebbe monda la coscienza.

Comunque sia, dalle elementari siamo usciti tutti vivi, chi più chi meno scalcagnato...Io ad esempio conservo ancora le piaghe di quella crociata anti-asino: dito medio destro con cicatrice incorporata e lobo sinistro seghettato ( tira tira...).
Oh, Bianca...Ma in fondo non le serbo più rancore, in fondo i segni peggiori li porta addosso proprio lei, e sono quelli del tempo, della vecchiaia che se la sbrindella, e con lei la sua memoria. In fondo in fondo vorrei che almeno l'immagine di quel mio lobo tumefatto lo custodisse ancora. Ricordi Bianca? Che strappi, e quanti piagnistei! Le tue caramelle. Ricordi?




Olga.

Olga è una parrucchiera di paese e al mattino presto la saracinesca del suo negozio è sollevata quanto basta perché le si vedano le gambe. Così io mi metto a camminare con le mani per guardarle anche la faccia, che di solito sorride perché nel frattempo m’era cascato tutto dalle tasche.
Il volto di Olga è un bianco trapezio dagli angoli sfuggenti, con gli zigomi così aguzzi che paiono temperati. Sopra gli occhi stretti ricadono ciocche bionde che si accartocciano in bellissimi ghirigori.

Ma la specialità della mia nordica parrucchiera, aspetto urgentissimo e decisivo all’incantamento, in verità sono le cosce.
Sono le cosce e insieme i polpacci, tosti e nervosi dentro abituali fuseaux, che nella loro domestica comodità mandano a me suggerimenti di culti esclusivi e ghiottonerie.
Tutta questa golosità che mi trasmettono le sue gambe qualcun altro potrebbe nutrirla nei confronti del suo seno, o del collo. Del sedere. E non dubito che se Olga non avesse la faccia che ha, dalle sue gambe non sarei affatto irretito.
O se portasse un’altra acconciatura. Se i suoi capelli fossero scuri anziché biondi, se si truccasse, se non guidasse un’utilitaria, se fosse meno alta, se non si chiamasse Olga.
Se non si chiamasse Olga, ecco, Olga, nome damascato melodramma di Hollywood, parola brevissima dilatata senza confini nelle prime due lettere, gemma altera e inconoscibile, un po’ bergamasca con la dieresi sulla O.
Il nome della mia parrucchiera è importante quasi come le sue gambe, o come il sorriso dei suoi occhi che l’ultima volta s’è fatto irresistibile alla vista di me sospeso in una verticale, con l’orlo dei pantaloni scivolato sulle ginocchia, a rivelare terrificanti calzetti viola. Allora per la prima volta ha sollevato interamente la serranda del negozio, è uscita e mi ha raccolto tutte le monete.
Poi mi ha preso sottobraccio, siamo entrati dentro e mi ha spinto sulla poltroncina. E ha sussurrato:qui ci vuole proprio una bella sfoltita!




Elisetta.

Mai avrei creduto di poterla vedere sgambettare dentro i suoi scarpotti bruni, CIC CIOC tra le viuzze, con la tracolla finalmente a ciondoloni sul ginocchio...strano insomma, lei che si è sempre spostata ballonzolando a mezz’aria nella sua locomotiva di gommapiuma, CIOF CIOF, o sui trampoli solari di Archimede, sovente sonnecchiando a cavallo di un’upupa veneziana...strano davvero vederla camminare..
Effettivamente l’ho trovata un po’ ingoffita, e ansimante, un dispendio certo inedito per lei. Poi m’ha spiegato come stavano realmente le cose, locomotiva dal carrozziere, i trampoli soffiati da un Bassotto e l’upupa in ferie a Murano; insomma, s’è dovuta ridurre al podismo come tutti i comuni mortali ( anch’io tra l’altro, ultimamente viaggio a piedi e lascio il mammut pascolare liberamente nei posaceneri di casa ). Comunque. Quando mi s’è fermata innanzi è rifiorita in tutta la sua grazia decadente, affranta e leggiadra al contempo, di antica stampa umbro-mesopotamica ( ? ). Per la prima volta ho avuto l’occasione di rimirarla in piena comodità e piuttosto audacemente, c’avevo l’occasione insomma e mi son detto che si fa ? E prendiamola st’occasione, e così me la sono rimirata. Non l’occasione.

Elisetta è una specie di miniatura d’argilla, molto fragile e sempre in balìa di celesti capricci. Ondeggia, e i suoi occhi con lei. Gli occhi di Elisetta sono occhioni inquieti dall’iridi secolari, screziate di ricordi ruvidi e terrosi. Insondabili reminiscenze...Anche la bocca, dalle labbra carnose e regolari, rossissime, conserva qualcosa di opaco e doloroso, e niente che abbia a che fare col Novecento.
La crocchia raccolta sulla nuca tradisce in verità la nuvolosità silvestre del suo chiomone, capelli che s’attorcono gelosi, e gelosamente anelano al districo. Le mani poi, sono languide e assonnate, piccole, e non s’incontrano mai. Volevo accarezzarle, le mani di Elisetta, ma temevo che si svegliassero.
A dire il vero neanch’io ero più tanto sveglio, lei mi parlava, parlava, e il mio pensiero correva dietro i Bassotti di tutto il mondo, sferragliava con i trenini di gommapiuma, cercava disperatamente un’upupa che non fosse veneziana, un’upupa biposto con un posto a fianco di Elisetta.




Osservando, poi.

Nell'entroterra marchigiano c'è un borghetto collinare chiamato Montefelcino. E' davvero piccolo, altrimenti non si spiegherebbe il nome, dico io.
Intorno a Montefelcino sono dislocati numerosi paesucoli, ma micro micro, due tre case e il loro podere. Altrettante son le strade che si snodano trai paesucoli. Il resto è oro, girasoli frumento ginestre, oro e nuvole pastose.

BRREEE...CLANC...BRIII-BREEE...e questo è il ruggito del moto B di mio nonno, che instabile come non mai rolla di qua rolla di là sferraglia in giù scarretta in su, mi scarrozza per erte e declivi, e sui cocuzzoli dei colli...CLONC!
Io lo tiro a più non posso il moto B di mio nonno...BREEE...per sentirmi aderire contro tutto quello che vedo, che mi saetta lungo i margini. Sarò così, incartato in una pellicola quando me ne andrò, un lievissimo involucro di memoria, impermeabile specialmente.

Oro e nuvole come cumuli di bambagia incastrano l'unico cimitero di queste parti. Un solo cimitero per tanti paesini, ma proprio micro, due tre case e l'orticello.
Si trova in altura il cimitero, sorge su una montagnetta affollata di rovi e cipressi.
In fondo al cimitero biancheggia una cappella familiare con davanti una teca di vetro. Attraverso la teca si vedono i loculi. Trai loculi e la teca, uno spazio davvero minuto, passeggia una ragazza, la ragazza morta nel settantatre, come indica l'iscrizione su una lapide.
Gli altri loculi sono disoccupati, non essendo altra lapide epigrafata. Dunque l'ufficio originario della cappella, di ricetto familiare, non è mai stato assolto. Verosimilmente i parenti della ragazza morta nel settantatre sono emigrati altrove, e la ragazza morta nel settantatre è rimasta sola, forse dimenticata, e il suo tempo lo trascorre girellando girellando, in uno spazio davvero misero trai loculi e la teca di vetro, e intorno la cappella familiare biancheggia, in un angolo del cimitero. L'unico di tutti i paesi disseminati intorno a Montefelcino.




Un monologo.

Sei sempre un pochino affaticata, e calda in volto, quando entri nel bar e mi siedi di fronte, allora annovero il giorno fra quelli più importanti.
Poi cominci a raccontarmi dei sogni che fai, e reclini il capo mentre parli, e inchiodi lo sguardo lontanamente, a stanare le linee, i colori che premurosa riporti in superficie.
C'è un arco profondo che taglia le tue palpebre, e le ciglia sono tende, ed ecco dietro grandi iridi come biscotti alla nocciola nevicati di fondente, che profumano di vite immaginarie abilmente intrecciate a un passato che non c'è.

Io vorrei conoscere il modo di guardarti vellicando la tua vanità, regalandoti un piacere morbido e frizzante, vorrei parlarti con un suono gentile e liquoroso, che t'invischi irrimediabilmente.
In verità io stesso non so ascoltare. Ti guardo, ti guardo soltanto, mentre languidamente sdrucciolo nella girandola variopinta che frulla intorno al tuo fantasma, e tu resti sola nel bar, e discorri, e graziosamente gesticoli...
Anche se nascondo l'orologio sotto l'ampia manica del cappotto, so bene che fra non molto ci saluteremo, così, come fosse stato il primo incontro, quasi una cortesia dovuta, e il mio CIAO sarà uno strozzato suggello a tutte le cose non dette, e solo, mi metterò a passeggiare, un po' curvo dalla piega che mi stai tracciando dentro, con la testa che si fa pesante, pesante, sul pianto in agguato.

Altre volte non ti vedo, e capisco che sei rimasta tra la gente, mentre nel bar io non so proprio come accavallare le dita, e un'ombra scura mi si spalma in faccia, lentamente. Un'inquietudine ispida e caotica mi tira i nervi, li trascina me li arrotola intorno, e qualsiasi avventore del locale potrà osservare un enorme gomitolo di nervi che vibrano davanti al caffè...forma sinistra e inavvicinabile. Un alone pian pianino si delinea, e si spiana trai nervi, un poco li allenta, ché un'amarognola malinconia possa insinuarvisi, cupa, cupa, ma pacata finalmente, e monotona...
L'idea di te si fa arrogante, incorruttibile, così dimentico il tuo volto, e le immagini terrene, precise, inutilmente nitide, ti girano intorno. Senza poter compiere un balzo.




Scomode fascinazioni.

Tra gli aspetti che più mi confondevano era la sua immagine nello specchietto retrovisore. Gli ampi dolcissimi fianchi di signora che va a spasso, parentesi tonde di un’espressione a tutto tondo, bianco, vaporoso, massimo guanciale...
Specchio specchietto retrovisore, quante fanciulle imprigionate in te, quanti incidenti stradali.

Il guanto di lucida pelle nera mi scampanava davanti, e dentro il guanto l’irsuta manona del vigile imbestialito che m’invitava di corsa a scendere dalla macchina. Avevo steso un ciclista della domenica. Era lì sull’asfalto che grugniva maledendomi, col ginocchio un pochino scardinato. Anche i passanti che transitavano di lì si fermavano per offrirmi qualche insulto. Eppure non  sentivo di avere alcuna responsabilità di quel casino, insomma, impreviste fantasmagorie, mi schermivo, e lei vigile, guardi un po’ anche lei se ho delle colpe, guardi, guardi nello specchietto, lì lì nel mio retrovisore, ma no non la prendo in giro, guardi se dico palle salga su, ecco dài, no signori assolutamente non sono bruciato, salite anche voi con il vigile guardate guardate bene nello specchietto, ma sì c’entra anche lei signore non si preoccupi vada a vedere se ho voglia di scherzare lo vede bene anche il vigile appiccicato allo specchietto, andate andate, come dice anche lei vuol salire ma prego non me lo chieda neppure no non si paga si figuri vada pure, oh beh magari c’è d’aspettare un momentino ma vedrà che qualcuno scende prima o poi, sicuramente...

Andandomene feci un buffetto al ciclista sbucciato che seguitava nei cari improperi, mentre in lontananza si udiva la sirena dei pompieri che qualcuno del paese molto opportunamente aveva chiamato.




Lo studiolo.

Al centro di una grande stanza nient'affatto illuminata pìsola uno studiolo in mandorlo. Non proprio al centro. Comunque. Infissi alla pedana dello studiolo, una scrivania e il suo scrannetto. Su questo è compostamente seduta una ragazza, e sulle sue ginocchia un cucciolo di mammut.
La ragazza sta curiosando, scartoccia e scartabella trai disegni sparpagliati sul piano dello scrittoio. Il mammut le sventaglia con gli orecchioni e intanto biascica due paroline con la proboscide.
La ragazza ha capelli ondulati e un'ampia gonna verdognola, e meravigliosi occhi marroni. Il mammut non è niente seducente, ma tanto simpatico, e indiscutibilmente soffice.

Comunque sia, penso di aver capito cosa cerchino i due in mezzo a tanti disegni: cercano due parole sul loro conto, senz'affatto immaginare che le sto scrivendo in questo momento.




Erminia.

Era proprio grossa, Erminia. Io, una donna così enorme non l'avevo proprio mai incontrata, figurarsi, con la mano arrivava ai comignoli e fra le dita porporine e grassocce spiaccicava i rondoni rintanati sotto le grondaie. Ridacchiando un po' timidamente me ne tendeva le carcasse ancora palpitanti.

Dopo la mezzanotte Erminia strisciava in fondo alla città, tutta sola, e tutta sferica gigantesca. Immane mappamondo di carne, Erminia andava a frignare, inconsolabilmente afflitta dalla sua ciccioneria, e c'aveva un modo di piangere, un modo tondo e debordante che sferzava incurvando gli abitati della città, POM POTOPOM POM POM.
Il buio ad Erminia le s'invischiava addosso impiastricciandosi col lardo, l'indefinibile ragnatela notturna l'avviluppava tutta, la imprigionava nella solitudine aracnidea dell'universo.
Io la vedevo così Erminia, dalla mia finestra, la vedevo come un castelletto laggiù in fondo, o anche una piccola città, una cittadina adiposa e piagnucolante rannicchiata in quel cantuccio di notte. A mano a mano che la città-Erminia s'immalinconiva stantuffando di cantilenanti piagnistei nella pece della notte, la mia città dormiva piano, ronfando i soliti sonni, i sonni quieti e indecenti di tutte le città.




Segreti.

All’interno del muro di cinta di un piccolo cimitero di campagna che nessuno potrà mai raggiungere c’è una porticina giallorosa.
Rispetto allo stato di estrema fatiscenza in cui versa il cimitero, questa porticina è davvero simpatica, e ricorda certi leziosi ingressi nei tronchi dei mandorli, dimore di gnomi.
Varcato l’uscio ci si ritrova in un vasto spazio rettangolare chiuso, della cui presenza non è possibile capacitarsi da fuori il cimitero. Si tratta di un cortile come quello di vecchie cascine rurali, su tre fianchi percorso da un porticato. In alto, i soliti granai.
Nel terreno, tra un pilastro e l’altro del lato coincidente col muro cimiteriale sono conficcati quattro massicci piedistalli in granito. Da ciascun piedistallo si leva un tondino d’acciaio e sul tondino traballa dolcemente un’enorme testa di topo.
Quattro teste di topo grandi come una poltrona, completamente spelate, ondeggiano ondeggiano, però come al rallenty, o come se il tempo colasse via piano.
Questi orribili oscillanti trofei non emettono un suono, ma si contorcono e spiano intorno agghiacciati, con i microscopici occhi rossi sgranati a individuare un’incerta salvezza, può darsi la morte.
E così da sempre, in atroce sospensione, se ne stanno le colossali teste.



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Data di pubblicazione 23/2/2000
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